“Qui è il Vesuvio finora ombroso di verdi vigneti. Ora tutto giace sommerso nel fuoco e nel tristo lapillo”. Così Marziale, con sintesi fulminea, fotografa la distruzione operata dal vulcano con l’eruzione del 79 d.C., e contemporaneamente richiama l’antica vocazione della zona alla coltivazione della vite. Testimonianze storiche e letterarie lo confermano, e le ville di Pompei e degli altri centri distrutti dal Vesuvio ne hanno conservato prove nella campagna, nelle case e nelle cantine. Dalle ceneri dell’antica Oplontis, nei pressi di Torre Annunziata, sono emersi i resti di un’azienda agricola produttrice di vino accanto a quelli di una ricca villa appartenuta a Poppea Sabina, moglie di Nerone. Gran parte della ricchezza dell’antica Pompei derivava, infatti, dalla produzione e dal commercio del vino. E un vino pompeiano è stato prodotto recentemente da cinque vigne piantate negli scavi della città, uno dei quali in corrispondenza dell’antico vigneto presso la Casa dell’oste Eusino. Duemila anni fa i Pompeiani gustavano “un vino rosso importante e ben strutturato, formato dall’80% dal vitigno Piedirosso”. Analisi accurate di fonti letterarie, iconografiche e materiali, fra cui i calchi delle radici delle viti, hanno permesso di impiantare i vitigni autoctoni Piedirosso e Sciascinoso. Il vino della prima vendemmia, nel 2001, è stato affinato per 12 mesi in barrique e sei in bottiglia e ha prodotto 1721 bottiglie.
La Strada percorre territori diversi e si articola in itinerari che seguono le zone di produzione delle numerose Doc. Fulcro della zona partenopea è la Doc Vesuvio, che interessa le falde del vulcano e tutela un vino d’antica fama come il Lacrima Christi. Anche allora, come oggi, la vite si arrampicava lungo le pendici del Vesuvio, che aveva più volte portato terrore e rovina, ma che con la sua terra fertilissima, continuava a nutrire i vitigni di Falanghina e Greco, di Piedirosso e Sciascinoso. Anche Napoli, moderna metropoli ingloba ancora, incredibilmente, numerosi vigneti, alcuni di grande rilevanza storica, come quelli della collina di Posillipo o della Certosa di San Martino. Uno di questi, realizzato nel ‘400, è stato recentemente restaurato assumendo l’aspetto di uno splendido giardino. Da Napoli la Strada sale a Posillipo, nel più panoramico dei tracciati urbani, poi scende a Bagnoli, dove incontra il Parco scientifico che ha sostituito le vecchie acciaierie. La litoranea che conduce a Capo Misero attraversa un unico, vasto sito archeologico di grande suggestione. A Pozzuoli il grande Anfiteatro conserva ancora le strutture interne che svelano i segreti dei combattimenti con le fiere. Unico e per molto tempo misterioso, il Serapeo è stato finalmente riconosciuto come ”Macellum”, l’ampio mercato di Puteolis, a ridosso del porto, con le botteghe, le nicchie e le colonne, che i frequenti bradisismi hanno istoriato dei resti di molluschi marini. Tutt’attorno maturano le uve per i numerosi vini della Doc Campi Flegrei.
Ischia, isola verde, vulcanica e bruciata dal sole, è la più grande delle tre isole del Golfo di Napoli. Sulle sue coste approdarono nel 775 a.C. i Greci; chiamarono l’isola Pithekoussai, dai grandi vasi di terracotta che vi si producevano. I pithoi, alti tre metri e mezzo e con un’imboccatura di un metro, erano i vasi da trasporto per eccellenza, sia per l’olio d’oliva, sia per la frutta. Nella Grecia antica, però erano usati anche per la fermentazione del mosto: per ridurre la traspirazione, venivano interrati e cosparsi all’esterno di resina o di pece. Questa tecnica conferiva al vino un aroma particolare, che si riscontra ancora oggi nel vino resinato greco. Dopo sei mesi, il vino era filtrato e travasato in otri o anfore di terracotta appuntite che permettevano la decantazione del deposito eventuale, prima dello smercio. Le coste frastagliate, le fumarole, le sorgenti termali indicano nell’isola l’ex vulcano, l’Epomeo. Anche il suo porto è il cratere di un vulcano, divenuto lago, che i Borbone aprirono al mare nel 1854, creando un incantevole approdo. Il monte ha le pendici ammantate da pini, castagni, agrumi e dai vigneti che danno vini a cui nel ‘500 venivano attribuite virtù igieniche e terapeutiche. Oggi le varietà coltivate sono cambiate, ma i vini dell’isola, raccolti e tutelati dalla Doc Ischia, godono ancora di un vasto e meritato prestigio. Dall’Epomeo si staccarono, in epoche lontane, grandi macigni di tufo: alcuni si fermarono a mezza costa, altri in prossimità dei boschi e del mare. Nel XV secolo, gli Ischitani si spinsero all’interno per sfuggire agli attacchi dei pirati, o alla ricerca di terreni da coltivare, e nei macigni di tenero tufo scavarono case, chiese, cantine per la vinificazione. Alcuni di questi locali sono sopravvissuti anche nell’uso: vi si applicano ancora i metodi tradizionali della vinificazione, tramandati da generazioni e mai dispersi, anche se rinnovati nella tecnologia. Nel tufo si scavavano anche le palmente, le antiche vasche per la pigiatura. Una grande e pesante pietra di tufo verde è stata utilizzata per secoli dai contadini come peso nella spremitura delle uve: è la “pietra torcia”.